Salsa di soia

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La salsa di soia, chiamata Shoyu in giapponese (醤油 o しょうゆ), è uno degli ingredienti alla base della cucina giapponese; il suo mix di sapori, anche se il salato è probabilmente quello predominante, la rende un ingrediente ottimo per ogni fase della preparazione di piatti giapponesi (e non).

E’ utilizzata per la marinatura, in fase di cottura dei cibi, come condimento e per preparare varie salse; è ricca di antiossidanti e aiuta la digestione, ha zero grassi ma è ricca di sodio; una volta aperta si conserva fino a 6 mesi anche fuori dal frigo mentre da chiusa, se tenuta in un luogo buio e fresco, mantiene il suo gusto fine a più di tre anni.

Un’altra particolarità della salsa di soia è che non congela facilmente; fino a -20° rimane liquida, a -40° inizia a diventare una specie di sorbetto per poi congelarsi solamente a -60°.

 

Tipi di salsa di soia

L’associazione JAS, Japan Agricultural Standards, ha standardizzato la salsa di soia in 5 tipologie differenti.

Salsa di soia

La Koikuchi Shoyu (濃) è considerata la salsa “comune” e rappresenta circa l’80% di tutta la produzione giapponese; si può utilizzare in qualunque preparazione oltre che direttamente a tavola ed ha un sapore salato ma allo stesso tempo un “umami” che riesce a ramificare tutti gli altri sapori.

La Usukuchi Shoyu (淡) è una salsa dal colore molto chiaro, più salata della Koikuchi Shoyu e dal profumo meno forte; è originaria del Kansai, rappresenta il 10% della produzione nazionale ed è utilizzata per preparare piatti a cui non si vuole alterare il colore naturale o modificarne troppo il sapore.

La Shiro Shoyu (白) è la cosiddetta salsa di soia bianca; ha un colore ambrato-bianco, il più chiaro tra tutte le shoyu, ed è originaria della prefettura di Aichi; ha un gusto tenue ed è usata principalmente nella preparazione del chawanmushi (un budino salato), di alcune zuppe, di tsukemono (sott’aceti) e senbei (cracker di riso).

La Tamari Shoyu (溜) è una salsa rossastra dal gusto possente e ricco di umami che viene utilizzata principalmente per accompagnare sushi e sashimi; è originaria della regione di Chubu e viene usata anche per glassare le pietanze grigliate e per tutti quei piatti che richiedono la cottura in salsa di soia.

La Saishikomi Shoyu (再) è l’ultima delle cinque tipologie ed è chiamata anche “a doppia fermentazione”, questo perché dopo la procedura classica di preparazione, viene aggiunta una seconda tipologia di salsa, preparata solamente con soia e grano (senza acqua e sale). Il risultato finale è simile alla salsa Tamari (anche per l’utilizzo), con un colore denso e scuro; viene anche chiamata “salsa di soia dolce” ed è originaria dell’area che va dalla regione di San-in del Kyushu fino al centro della prefettura di Yamaguchi.

Esistono poi combinazioni particolari di salsa di soia con altri ingredienti, diffusesi soprattutto negli ultimi tempi, come ad esempio la “salsa di soia dashi”, alla quale viene aggiunto durante la preparazione alga konbu e/o katsuobushi.

Alla “salsa di soia ponzu”, invece, viene aggiunto succo di agrumi e aceto fermentato, mentre alla salsa Tsuyu viene aggiunto mirin, zucchero, dashi ed altri ingredienti rendendo quest’ultima una salsa utilizzata in svariati ambiti come tenpura, stufati e come base per soba, udon e noodles.

 

Come si produce la salsa di soia?

La produzione della salsa di soia prevede l’utilizzo di vari ingredienti che, grazie alla fermentazione, producono a fine processo il liquido della salsa che sarà poi imbottigliato e venduto.

Il processo tradizionale giapponese prende il nome di “honjozo” e prevede una fermentazione definita “naturale”; ovviamente ognuno dei tipi di salsa citati in precedenza ha una metodologia leggermente diversa di preparazione.

Se prendiamo come riferimento la salsa di soia comune (koikuchi shoyu), gli ingredienti utilizzati sono: soia, grano, sale, acqua e koji (una muffa fermentante).

Per prima cosa i semi di soia vengono messi in ammollo in acqua e lasciati ammorbidire, dopodiché sono cotti a vapore ad alta temperatura. Il grano viene tostato, quindi spezzettato per facilitarne la successiva fermentazione. A questo punto soia e grano vengono uniti e mescolati, ed a loro viene aggiunta la muffa koji (aspergillus oryzae) che ne permetterà la fermentazione, producendo un miscuglio che viene chiamato “shoyu koji”. Lo step successivo è l’unione di acqua e sale al “shoyu koji” al fine di agire come conservante e per “gestire” al meglio la fermentazione.

Il composto finale prende il nome di “moromi”; questo viene fatto riposare per circa 7 mesi in appositi silos e mescolato di volta in volta; a conclusione il moromi viene pressato lentamente e filtrato così da ottenere quella che viene chiamata “salsa di soia cruda”.

L’ultimo step del processo di produzione prevede che la “salsa cruda” rimanga a riposo per qualche giorno così da farla decantare; quindi viene riscaldata con del vapore al fine di fermare la fermentazione ed apportare il giusto colore e sapore.

Altri due metodi di produzione sono il “kongo jozo”, in cui si mescolano al moromi anche aminoacidi ed altri ingredienti per dare un gusto diverso in fase di fermentazione, ed il “kongo”, in cui gli aminoacidi vengono aggiunti in una fase successiva.

 

Storia della salsa di soia

La salsa di soia è un alimento nato in Cina intorno al 200 a.C., anche se non si ha una data precisa della sua invenzione. Anche l’introduzione in Giappone non è ben nota, ma viene fatta risalire all’arrivo dei monaci buddisti, i quali la usavano per dare un sapore diverso alle verdure, visto che la dieta buddista è vegetariana.

La prima menzione ufficiale in Giappone risale al 700 d.C., quando la salsa di soia era chiamata hishio, una deformazione fonetica della parola cinese jiàng; a quei tempi l’hishio aveva un colore marrone ed era una sostanza molto più solida.

Prima del suo avvento era di uso comune usare salse a base di pesce, dal gusto molto pungente e salato; fu verso la fine del 700 d.C. che si iniziò a parlare di spremere l’hishio per estrarne una sostanza liquida, ma anche in questo caso le notizie sono confuse.

L’hishio è comunque la base da cui è nata non solo la salsa di soia, ma anche il miso ed il tamari (una salsa di soia particolare, poco salata ed indicata a chi soffre di celiachia).

I racconti popolari parlano del monaco buddista zen Shinshu Kakushin, che dopo un viaggio in Cina riportò in patria la ricetta del “miso kinzanji”; durante la sua preparazione notò che alla base dei recipienti si formava una sostanza liquida il cui gusto si adattava molto bene a condire vari piatti, quindi decise di diluirla con acqua per stemperarne il gusto forte.

Fu durante il periodo Muromachi che questa salsa prese il nome di shoyu e fu durante la fine dello stesso periodo che la sua produzione smise di essere prerogativa dei templi ed iniziò ad essere prodotta da varie aziende del Kansai.

Il suo uso aumentò notevolmente per tutto il periodo Edo e Meiji, per fermarsi bruscamente durante l’era Showa, a seguito dell’incidente di Mukden (tra Cina e Giappone) e della seconda guerra mondiale, che ridusse la quantità di materia prima importata; ricominciò ad espandersi nuovamente nel dopoguerra anche grazie alla liberalizzazione della produzione.

Nel 1963 vennero stabiliti degli standard per la produzione di salsa di soia (che sono stati poi rivisti nel 2009) ed oggi il Giappone è tra le principali esportatrici di Salsa di soia a livello mondiale.

Il 1° ottobre è il Soy Sauce Day, il giorno della salsa di soia; la scelta di questo giorno ricade nel fatto che il kanji antico cinese per “ottobre” ha vari elementi in comune con il kanji della salsa di soia.

Fabrizio Chiagano
Fabrizio Chiagano
Web Developer, UX e UI Designer. Abbastanza Nerd, appassionato di tecnologia, fotografia, cinema, documentari e marketing. Ovviamente, patito di anime, cucina e cultura Giapponese. Vivo a Milano ^_^